Gli Schiavi nell’antica Roma

Verso l’anno 100 a.C., più di un terzo della popolazione romana era formata da schiavi. Essi erano prigionieri di guerra, schiavi per nascita, bambini rapiti dai pirati o dai briganti, allevati e poi venduti, e, in ultimo, uomini liberi che avevano perso la propria libertà a causa di debiti.

I romani consideravano gli schiavi come esseri inferiori ed un soldato romano preferiva togliersi la vita, piuttosto che diventare schiavo..

Quando si vogliono delineare gli aspetti più caratteristici della vita quotidiana dei romani, si incontrano sempre degli schiavi (servus).

Essi si dividono in due gruppi:

  1. la familia urbana, i servi di città;

  2. la familia rustica, i servi di campagna.

I vari compiti sono distribuiti sapientemente in base alle attitudini e capacità di ciascuno.

Gli schiavi, come in tutta l’Asia, l’Egitto, la Grecia, così in Roma, abbondavano.

Dionigi di Alicarnasso1, parlando di Servio Tullio2, trova che i romani acquistavano i servi con mezzi legittimissimi: giacché o li compravano all’asta, o li ricevevano con il bottino o ottenevano da un generale di conservare quelli che avevano preso in guerra o li compravano da chi li aveva avuti nei modi predetti.

Estese le conquiste, si portavano a Roma schiave anche persone nobili ed istruite, principalmente dalla Magna Grecia e dalla Sicilia.

Lo schiavo non è una persona, ma una cosa, perciò non ha rappresentanza nel consorzio civile, non può deporre in testimonio, non può citare in tribunale, non può avere nozze legittime né figli propri. Il suo naturale erede è il padrone, che gli subentra nell’altrui testamento. Il padrone può batterlo, crocifiggerlo, affamarlo, fare ogni infamia del suo corpo.

Ulpiano3 li conta fra le res mancipi (cose sulle quali si ha pieno diritto di proprietà): e quod attinet ad ius civile, servi pro nullos habentur. Servitute mortalitati fere comparamus (Per quello che riguarda il diritto civile, i servi sono considerati nulla. Paragoniamo quasi la schiavitù alla mortalità, cioè all’essere soggetto alla morte). (Dig. I. t. 17, l.32; e 209 fragm. Ulpiani). In potestate dominorum sunt servi: quae potestas juris gentium est, nam apud omnes peraeque gentes animadvertere possumus, dominis in servos vitae necisque potetatem fuisse; et quodcumque per servum acquiritur, id domino acquiri. Pertanto, (gli schiavi dipendono dai padroni (sono in potere dei padroni), il quale potere è proprio del diritto degli uomini; infatti senza alcuna differenza  presso tutte le genti possiamo notare che per i padroni vi fu potere di vita e di morte verso i servi; e qualunque cosa s’accresce per un servo, si accresce per il padrone.. (Inst., i.t.8) . Floro4, invece, li chiama .secundum genus hominum (Seconda stirpe degli uomini).

Seneca5, controv. X. 4 dice: In servum nihil non domino licere. (Tutto è permesso al padrone contro un servo. (Nulla è vietato al padrone nei confronti dello schiavo, o meglio tutto è permesso al padrone contro un servo).

Giovanale6, invece, nella satira V, v. 210 scrive quest’infamia:

Pone crucem servo. Meruit quo crimine servus.

Supplicium? Qui testis adest? Quis detulit audi;

Nulla satis de vita hominis cunctatio longa est.

O demens! Ita servus homo est? Nihil fecerit: esto.

Sic volo, sic iubeo: stet pro ratione voluntas.

Che tradotto: “Poni una croce sul servo. Per quale crimine il servo meritò il supplizio?

Quale testimone è presente? Chi lo ha messo in vendita? Ascolta: nessuna esitazione è abbastanza lunga sulla vita di un uomo.

O folle! Così il servo è uomo? Non avrà fatto niente: e sia. Così voglio, così comando: la volontà stia per la ragione”. Questi erano portati sul mercato da pirati o da speculatori, dove si disponevano in una trabacca (catasta) a vari scompartimenti simili a gabbie, nudi, con le mani avvinte e in fronte o appeso al collo un cartello, portante le loro buone e cattive qualità. Plinio6 nelle (Hist. Nat. VII, 4) scrive: Impediti pedes, vinctae manus, inscripti vultus. I suoi piedi erano ostacolati, le sue mani erano legate e la sua faccia era segnata”. Entro gallerie interne si esibivano i prescelti. I forestieri, di cui non si poteva garantire la docilità, si presentavano con mani e piedi legati e con il pileo in testa. Il compratore esponeva al negoziante: Mi fa bisogno di un mugnaio, di un torcoliero7, di un segretario per lo scrittoio, di una donna per il letto, di un cane per la porta, di un pedagogo per mio figlio. Nel mondo romano la maggior parte di schiavi era impegnata nelle aziende agricole che i Romani chiamavano ville. Ogni villa era interamente affidata a un sovrintendente, anch’egli schiavo, scelto tra i migliori e chiamato villico. Viveva nella fattoria con la sua compagna, la villica, che non poteva, però, sposare legalmente. Agli schiavi, infatti, era vietato il matrimonio. La villica dirigeva le cucine, l’infermeria, la tessitura, la mungitura e pensava agli approvvigionamenti alimentari. Gli altri schiavi si dividevano in sorveglianti, schiavi sciolti e schiavi incatenati. Questi ultimi erano quelli inclini alla fuga e alla violenza e, sul mercato, erano quotati a prezzi molto bassi. Il compratore guardava, palpava, esaminava la forza e l’intelligenza. Il venditore era obbligato a dichiarare le malattie e i difetti, se riottoso, se solito a fuggire o andare in giro. La tariffa, secondo l’età e la professione, era la seguente: sessanta soldi d’oro per un medico, cinquanta per uno scrivano, trenta per un eunuco minore di dieci anni, cinquanta se maggiore. Cittadini di gran virtù speculavano sull’educarli. Catone8 li comprava meschini e ignoranti, poi fatti robusti e destri, li rivendeva. Pomponio Attico9 ne formava letterati.

Molti medici erano schiavi e liberti.  A partire dal III secolo a.C.  giunsero  dalla  Grecia  oltre ai  medici, altri  studiosi.

Schiavi pedagoghi erano addetti ai figli del padrone. Essi erano così distinti: precector (precettore dei figli dei padroni); pedagogus (istruttore dei figli dei padroni); capsarius (che porta agli scolari la cassetta dei libri); calculator (maestro di aritmetica); grammaticus (maestro di lingua).

Alcuni erano schiavi pubblici, per lo più fatti in guerra, e che appartenevano allo Stato o alle città, con un assegno annuo perché attendessero ai lavori pubblici, ai bagni, agli acquedotti, alle miniere; oppure servissero i generali e i magistrati anche per corrieri, carcerieri, manigoldi. A peggior condizioni si trovavano gli schiavi privati, che esercitavano nelle case qualsiasi cosa. Essi si dedicavano ai lavori agricoli: erano mandriani, pastori, cuochi, barbieri, sarti, calzolai, cacciatori, giardinieri, insomma tutto. In quali modi poi venivano trattati, fa orrore solo il pensarlo. Quelli che lavoravano i campi avevano i capelli e le ciglia rase; quelli che portavano i padroni nelle eleganti lettighe si trascinavano dietro le catene. Antonio e Cleopatra sperimentavano i veleni sopra gli schiavi. Pollione10 ne fece gettare alle murene uno che gli aveva rotto un vaso; di questo lo rimproverò Augusto, che, nonostante tutto, fece impiccare all’antenna uno che gli aveva mangiato una quaglia. Si facevano assistere ai lunghi pasti in piedi digiuni e guai se avessero tossito, starnutito, sospirato, anzi solo mosso le labbra. Alcuni ricreavano le cene con atroci combattimenti e i padroni applaudivano, fischiavano e dicevano: “Fatti lontano, canaglia, che il tuo sangue mi sporca la tunica”. Degradati in questo modo da inumana severità o da turpi favori, senza coscienza d’altro dovere che del soddisfare il padrone, anzi prevenirne i desideri onesti o infami, crescevano nell’abitudine dell’intrigo, della menzogna, del furto. Antica stanza degli schiavi scoperta a Pompei La notte poi erano schiavi in ergastoli e grotte, ammonticchiati uomini e donne su giacigli o per terra. Dopo una giornata lavorativa di dodici ore, a sera gli schiavi incatenati venivano chiusi negli ergastoli (o locali per i lavoratori, dal greco érga, lavori), che erano locali sotterranei e soffocanti, con piccole finestre poste troppo in alto per essere raggiunte. Gli altri alloggiavano in stanzette più comode. Fatti vecchi e incurabili, si portavano all’isola di Esculapio11 sul Tevere, e colà si abbandonavano a morire. L’imperatore Claudio pensò di riparare a quest’ultima crudeltà col decretare che il servo così esposto dovesse essere libero, e allora i padroni lo uccidevano. Così ci parla Seneca degli schiavi: “Infelicibus servis movere labra ne in hoc quidem, ut loquantur, licet. Virga murmur omne compescitur, et ne fortuita quidem verberibus excepta sunt: tussis, sternumenta, singulti…” “Agli infelici schiavi non è permesso di muovere le labbra neppure per questo, per parlare. Ogni mormorio è represso con un colpo di verga e neppure i rumori accidentali: un colpo di tosse, gli starnuti, i singhiozzi sfuggono ai colpi di verga…”. Eppure, continua Seneca, essi meritano tutta la nostra comprensione: “Servi sunt” – “Immo homines”. “Servi sunt” – Immo contubernales”. “Servi sunt” – “Immo humiles amici”… Cogita istum, quem servus tuus vocas, exc iisdem seminibus ortum, eodem frui coelo, aeque spirare, aeque vivere, aeque mori. “Sono servi” – “No, uomini”. “Sono servi” – “No, alloggiano sotto lo stesso (tuo) tetto”. “Sono servi” – “No, sono umili amici”. Pensa che costui che tu chiami tuo servo, è nato dalla medesima stirpe, gode dello stesso cielo, respira, vive, muore proprio come te”. Quella monotonia di patimenti era interrotta una volta all’anno, quando, nell’orgia dei Saturnali12, gli schiavi ricuperavano una momentanea libertà, quasi per sentire più grave la severa disciplina abituale. I saturnalia Eppure questi infelici, dalle istituzioni, dai pregiudizi e dalla consuetudine posti fuori dalla legge civile e umana, erano la parte attiva delle nazioni antiche, indispensabili alla sussistenza di tutti. Scrittori e statisti sono d’accordo a guardare come qualcosa di ignobile e disonorante il lavoro e l’industria. Cicerone13 trova indegna di uomo libero qualunque professione laboriosa, a mala pena eccettuando la medicina e l’architettura: Tollera il commercio solo quando reca ingenti guadagni. La classe attiva era dunque tutta di schiavi. Varrone14 classifica gli strumenti dell’agricoltura in vocali (cioè) gli schiavi, in semivocali le bestie e muti le cose inanimate. Catone15 dice che per coltivare duecento quaranta iugeri di oliveto si richiedono tredici schiavi, tre bovi, quattro asini. Gli schiavi cavano le miniere, lavorano negli opifici, sono noleggiati per le costruzioni. Essi adempiono gli ordini dei magistrati, curano gli acquedotti, le vie, gli edifici, remano sulle flotte, prestano servizio negli eserciti… Fanno i domestici nelle case e, a volte, sono gli amministratori. Mettono la loro abilità al servizio degli artigiani. In molte botteghe di ceramisti il 75% dei lavoratori sono schiavi. Altri lavorano negli uffici pubblici. A parte il servizio militare riservato ai soli cittadini, non vi è lavoro a Roma dove gli schiavi non vengono impiegati. Il servo ancora è l’amico, il confidente, il tutto. Gli amici non si incontrano che al foro o nelle gozzoviglie. Lo schiavo è un animale istruito, fedele, intelligente meglio ancora del cane. Segue il padrone in ogni dove, gli presta mille servizi da cui un libero rifugge, lo ricrea con le buffonerie, gli compone le orazioni con cui farsi applaudire in piazza o in senato, gli raduna i testi con cui vincere le cause… Erano addestrati per i duelli individuali, i combattimenti con le belve e per altri giochi sanguinosi e spettacolari, la cui posta era sempre la vita o la morte. Privo dei diritti civili, reduce dal trauma della cattura e della vendita al mercato, punito crudelmente, trattato come un oggetto parlante, premiato con gentilezze che non andavano oltre un vestito nuovo o una parola cortese, sottoposto per legge alla tortura se veniva convocato in tribunale come testimone: lo schiavo, da dove attingeva le forza di vivere e di far funzionare con il suo lavoro quell’enorme macchina che è l’impero Romano? Viveva nella speranza di ottenere la libertà. Gli schiavi erano frequentemente liberati a Roma. Ma ciò che contraddistingue meglio i Romani da tutti gli altri popoli antichi era che una volta liberati essi diventavano cittadini romani. Lo schiavo liberato diventava un liberto(16), assumeva il cognome del suo ex padrone o otteneva la cittadinanza romana per sé e per i suoi discendenti. Non a tutti, però, questa speranza bastò per resistere. ____________________________

DIONIGI DI ALICARNASSO, (nato 60/55 a.C. circa- morì dopo il 7 d.C.), fu storico greco vissuto per lungo tempo a Roma negli anni travagliati del passaggio dalla Repubblica al Principato. Autore di numerose opere di critica letteraria, deve la sua fama soprattutto alla sua opera storica STORIA DI ROMA, in cui si propone di comporre il primo resoconto completo in lingua greca della storia romana dalle origini.

SERVIO TULLIO, sesto re di Roma. Morto Tarquinio Prisco in una congiura, la moglie Tanaquil, temendo la strage familiare e l’intervento delle fazioni dei Marcii, organizzò la successione del genero Servio Tullio, figlio di Ocresia, la captiva (schiava) Corniculana e di Publio Tullio Corniculano (Livio 4 – 3 – 12 e pure 1 – 39 – 5; Dionigi di Alicarnasso 4 – 1 – 2; Plutarco – Fortuna Romanorum 10 – 323; De viris illustribus 7 – 1). Tanaquil, donna scaltra e intelligente, nascose al popolo la morte del re, lo dichiarò ferito ma in convalescenza, e nel frattempo sarebbe stato il genero Servio Tullio a sostituirlo sul trono. E’ evidente che i Romani non amassero affatto il re etrusco. Anche se abbiamo pochi elementi sul suo governo, possiamo arguire che non fosse né giusto né generoso se fece poi odiare tanto i re a Roma.

3 DOMIZIO ULPIANO, conosciuto solamente come Ulpiano, è stato un giurista e politico romano.

4 PUBLIO ANNIO FLORO, (Africa, 70/75 circa – Roma 145 circa), è stato uno storico e poeta romano, di origini africane, autore dell’opera Bellorum omnium septingentorum libri duo., databile alla prima metà del II secolo, di chiaro intento celebrativo e in stile retorico.

5 LUCIO ANNEO SENECA, (detto il Vecchio), nacque a Cordova in Spagna nel 56 a.C. Si trasferì a Roma e, lasciando gli studi forensi, si dedicò alla letteratura. L’unica opera di Seneca il Vecchio a noi pervenuta, sia pure in parte, venne da lui riunita sotto il titolo Oratorum et rhetorum sententiae, divisiones, colores, cioè “Le tesi sostenute nelle opere degli oratori e dei retori, la distribuzione della materia, il colorito e lo stile dell’esposizione”.
Il piano dell’opera comprendeva dieci libri di Controversiæ e un libro di Suasoriæ: a noi sono giunte le Controversiæ, sette delle Suasoriæ ed alcuni estratti degli altri scritti. Morì a Roma nel 40 d.C.

6 DECIMO GIUNIO GIOVENALE, nato tra il 50/60 d. C. circa ad Aquino, si trasferì a Roma per compiere i suoi primi studi. Scrive sedici satire raggruppate in cinque libri. Le sue satire si propongono solo l’intento della denuncia sociale e e non quello della correzione.

6 PLINIO IL VECCHIO, uomo politico e militare, è nato è nato il 23 d.C., ed è moto il 25 agosto 79 d.C. Ha scritto Naturalis Historia che è un’opera enciclopedica di 37 libri sulle scienze naturali. Vuole essere una Summa del sapiere scientifico antico.

7 Operaio impressore che un tempo era addetto alla tiratura o stampa in torchio. Oggi è una qualifica professionale dell’operaio tipografo che stampa le bozze al torchio.

8 CATONE IL CENSORE, nato a Tusculum il 234 a.C. e morto a Roma il 149 a.C. MARCO PORCIO CATONE è stato politico, generale e scrittore romano. Fu autore di una vasta raccolta di manuali tecnico-pratici, con i quali intendeva difendere i valori tradizionali del mos maiorum contro le tendenze ellenizzanti dell’aristocrazia legata al circolo degli Sciopioni, indirizzata al figlio marco. Della vasta raccolta si conserva per intero soltanti il Leber de agri cultura, in cui esamina l’azianda schiavile che tanto spazio si conquisterà poi in età imperiale.

9 TITO POMPONIO ATTICO è nato a Roma il 110 a.C. , moro a Roma il 31 marzo 32 a. C. Fu cavaliere romano, finanziere, promotore culturale e scrittore, confidente e consigliere di personaggi illustri del suo tempo. Le notizie sulla sua vita si conoscono dalla vita di Attico di Cornelio Nepote e dalle lettere ad Attico di Cicerone, ritrovate da Francesco Petrarca.

10 GAIO ASINIO POLLIONE, politico, oratore e storico romano, nato a Teate il 76 a.C., morto a Tusculum il 5 d.C. Nel 39 a.C. Pollione creò per primo una biblioteca pubblica, tenne esposta una collezione d’opere d’arte greche, restaurò in forme grandiose l’Atrium libertatis a Roma e introdusse la pratica delle recitaziones, cioè della lettura in pubblico, in apposite sale, di scritti in prosa e poesia. Scrisse una Nova carmina (raccolta di poesie) e una storia delle guerre civili romane. Dal punto di vista stilistico la sua scrittura si caratterizzava per semplicità, chiarezza ed eleganza.

11 Nome latino della divinità greca Asclepio, dio della medicina. Il suo culto come divinità guaritrice si estese rapidamente in tutto il mondo antico (a Roma si insediò nel 293 a.C. con il nome di Esculapio, nell’Isola Tiberina). Il Tempio di Esculapio sull’Isola Tiberina, inaugurato nel 289 a.C., era situato nel luogo dove oggi si trova la basilica intitolata a S. Bartolomeo.

12 Una delle più diffuse e popolari feste religiose di Roma antica, che si celebrava ogni anno, dal 17 al 23 dicembre, in onore di Saturno, antico dio romano della seminagione. I saturnali avevano inizio con grandi banchetti e sacrifici. I partecipanti usavano scambiarsi l’augurio io Saturnalia, accompagnato da piccoli doni simbolici, detti strenne.

13 MARCO TULLIO CICERONE è stato un avvocato, politico, scrittore, oratore e filosofo romano. Esponente di un’agiata famiglia dell’ordine equestre, fu una delle figure più rilevanti dell’antichità romana. Nasce ad Arpino il 3 gennaio 106 a.C., muore a Formia il 7 dicembre 43 a.C. Principali opere di retorica e politica: De oratore (55 a.C.), De legibus (52 a.C.), De re publica (54-51 a.C.), Orator (46 a.C.), Brutus (46 a.C.). Opere filosofiche: Tusculanae disputationes (45 a.C.), De natura deorum (45 a.C.), Laelius de amicitia (44 a.C.), De Officiis (44 a.C.). Cicerone è l’autore che ha usato la lingua latina nel modo più elegante e ricco, tanto da essere tutt’oggi preso come modello dell’insegnamento del latino nelle scuole. La sua prosa, che fu ricca di neologismi e nuovi termini mutuati dal greco, fu ammirata già nell’Antichità e nel Rinascimento.

14 MARCO TERENZIO VARRONE, nato a Rieti il 116 a.C., morto a Roma il 27 a.C., è stato un letterato, grammatico, militare e agronomo romano. L’attività di Varrone fu immensa: l’indagine moderna ha elencato 74 opere per un totale di 620 libri. Di tutta questa produzione rimane pochissimo: un’operetta in tre libri sull’agricoltura (Rerum rusticarum libri tres), e una parte (6 libri, non integri, su 25) della grande opera De lingua latina; restano inoltre un migliaio di frammenti in versi e in prosa.  L’unica opera di V. a noi giunta quasi integra, Rerum rusticarum libri tres, fu scritta nel 37, a 80 anni, ed è pregevole per la conoscenza della campagna, contemplata con amore e grande sensibilità.

15 L’unità di superficie agraria usata dai Romani era lo iugero (dal latino iugerum), equivalente all’area di terreno che si poteva arare in una giornata di lavoro con una coppia di buoi aggiogati (di qui l’etimologia da “iugum”, cioè “giogo”) . Lo iugero corrispondeva a circa un quarto di ettaro, esattamente a 2.519,9 m². Lo iugero era idealmente concepito come un rettangolo di 12×24 pertiche di lato, ovvero come l’unione di due actus quadrati (essendo l’actus pari a 12 pertiche lineari).

(16) I liberti erano gli schiavi liberati dal padrone, perché i ricchi romani liberavano facilmente quegli schiavi che li servivano

come domestici e aiutanti. Infatti i segretari personali dell’imperatore, cioè i maggiori esperti delle questioni di Stato, furono scelti fra i liberti. Pur essendo libero e cittadino, il liberto non godeva della stessa capacità giuridica degli ingenui,

ossia dei nati liberi.