LA PANIFICAZIONE DELLE NONNE E … I FORNI A POGGIO IMPERIALE

Quando si doveva fare il pane (‘mmassà), la sera prima si andava a chiedere, presso qualche comare conoscente della stessa strada, il lievito (u crescènde), se non se ne era in possesso. (Si ricorda che la e senz’accento è muta, cioè non si pronuncia).

“Mbristem’u crescènde, quande vaje a crescendà,

quande facce quist’e quill’e te lu pòrte da kape qua”.

(Prestami il lievito, giusto il tempo di fare il pane e poi te lo riporto).

Il lievito veniva conservato fino al momento dell’impasto sotto il materasso del letto grande (tra u matarazz’e u saccóne chjine de frusce de ran’dineje).

Si passava la farina ‘nda fazzatóre per separarla dalla crusca (a caniglie) e si aspettava che arrivassero le due o le tre del mattino per impastare (‘mmassà). A fare la levataccia era generalmente la padrona di casa (la nonna o la mamma), ma quando in famiglia c’erano figlie femmine già grandi, erano queste ultime ad occuparsene, anche se la mamma dirigeva i lavori.

Non era raro il caso, però, che, in assenza di altre donne in famiglia, per aiutare la mamma, si svegliassero e si alzassero dal letto anche i figli maschi, specialmente i più piccoli che dovevano andare a scuola e non al lavoro. Anche in questo caso era sempre la mamma a iniziare i lavori e solo successivamente intervenivano i figli che continuavano ad amalgamare la pasta fino a quando non diventava uniforme e cacciava le bollicine.

Era tutto un lavoro di braccia.

Diventata uniforme, la pasta veniva coperta con strofinacci e coperte di lana e si lasciava lievitare per alcune ore. Dopo di che tornavano nuovamente a letto. Verso le sei o le sette del mattino la pasta veniva scoperta e tagliata (ce stanàve), si faceva qualche altra manipolazione e poi si metteva in cesti di vimini (ndi cestàrèlle) preventivamente preparati con apposite pezzature e coperti con un tovagliolo cosparso di farina per non far attaccare la pasta (a mappíne ‘nfarenàte); quindi si aspettava l’arrivo del garzone del fornaio, avvisato sin dal giorno prima, per il prelievo e il trasporto del pane.

A Poggio Imperiale, all’epoca, c’erano quattro forni situati in diversi punti del paese.

In via 18 gennaio 1761 c’era un forno a paglia di Nucce Vainèlle (dei fratelli Simeone).

In via San Marino c’era un altro forno a paglia di Rakèla Majandóne (appartenente alla famiglia l’Altrella).

In Via De Cicco c’era un altro forno a paglia di Pastulle (della famiglia Bonante). (Mi scrive Antonella che il padre, quando si mieteva, andava a caricare la paglia con il carretto grande u carrettòne per bruciarla nel forno).

In via Armando Diaz c’era un altro forno a legna di Sdegnàne (della famiglia Malerba).

Chi aveva un cortile (u ssétte) con il forno cuoceva il pane in casa.

Il fornaio o la padrona di casa preparavano il forno, portandolo alla giusta temperatura, alimentandolo con la paglia o con la legna. Prima di infornare il pane, si passava, per raccogliere la cenere, una specie di mocio (u munnele).

Ogni partita di pane era composta da quattro, cinque o più panetti dal peso di cinque – sei Kg l’uno. L’operazione della panificazione veniva ripetuta di solito ogni settimana o quindici giorni prima che il pane finisse del tutto, perché: “Pan’annàze pane sparàgne nu carre de rane”.

(Con il pane davanti ad altro pane si risparmia un carro di grano).

Non si mangiava mai il pane appena sfornato, altrimenti sarebbe finito subito, data la sua fragranza. Si mangiava il pane raffermo per risparmiare.

Generalmente, quando si panificava, si preparava anche la pizza con pomodoro sale e olio o anche senza condimento. Quest’ultimo tipo di pizza veniva chiamato (a pizze ndèrre) pizza a terra condita, per chi lo aveva, con il mosto cotto (u mestekótte) e si faceva per calmare la fame dei ragazzi.

Qualche volta per i bambini si tagliava un pezzo di pasta e si modellava in diversi modi:

simile ad un panino si chiamava a vaccàrèlle.

oppure simile ad un uccello si chiamava u vucelluzze.

o, per le femminucce, simile ad una bambola a puparèlle.