Nel Bicentenario dell’Autonomia Amministrativa di Poggio Imperiale: uno sguardo al passato

 

La rivolta di Masaniello a Napoli ha avuto ripercussioni abbastanza rilevanti in tutta la Capitanata, specialmente nelle estati del 1647 e del 1648.

Erano diffusi e radicati in quel periodo la povertà, il malcontento e una grande disoccupazione. L’eterno male del Sud.

In questa situazione di povertà e di miseria erano inserite tutte le calamità che avevano colpito la provincia di Foggia.

L’ultima beffa della popolazione era stata quella di avere avuto come possessori della terra gli abruzzesi. Il Tavoliere aveva cambiato padrone, senza che le sue naturali risorse potessero servire al riscatto civile ed economico.

Era necessario, pertanto, affrontare nuove questioni per consentire un graduale sviluppo dell’agricoltura. Tanto lavoro c’era da fare! Il Tavoliere era per lo più paludoso, malsano, malarico e la situazione demografica era poco incoraggiante.

Nel 1759 era sorta Poggio Imperiale, ad iniziativa del Principe di Sant’Angelo Placido Imperiale.

Corso Municipale, 1900

Subito dopo sarà la volta di altri cinque siti: Orta, Carapelle, Ordona, Stornara e Stornarella, sorti in un’altra parte del Tavoliere sulle proprietà terriere già possedute dai Gesuiti.

Qualche decennio dopo sarà la volta di San Ferdinando, voluta da Ferdinando II per proteggere gli abitanti delle Saline (oggi Margherita di Savoia), decimati dalla malaria.

La malaria ha mietute parecchie vittime, com’è avvenuto anche a Poggio Imperiale per diverse famiglie albanesi.Queste famiglie in un primo tempo furono sistemate a Canino (VT), dove ricevettero vettovaglie e sostegno. Fu erogato, inoltre, a ciascuna persona, facente parte della famiglia, un sussidio di baiocchi cinque (monetina d’argento meridionale e romana del valore di un soldo).

Gli Scutarini si dedicarono a “dicioccare e a sterpare” le tenute, ma, davanti alle crescenti difficoltà “… perché l’aere di Pianiano non fu loro molto salubre, per essere troppo vicino al mare, e a causa dell’acqua non troppo buona…”, si ammalarono quasi tutti e ne morirono sessantasei. Il 28 novembre, con il permesso del papa Clemente XIII, si allontanarono da quel luogo e s’imbarcarono in una Tartana Napoletana. Giunsero nella città di Napoli, dove si trattennero circa quaranta giorni. Furono, poi, dal Principe Imperiale invitati a dimorare “nel cominciato paese di Poggio Imperiale”, promettendo loro molti privilegi, come si legge nella stipula tra Placido Imperiale e il re Ferdinando IV: “… CONTRACTATIO INTER EXCELLENTISSIMUM DOMINUM PRINCIPEM SANCTI ANGELI, ET PATRES FAMILIAS ALBANENTIUM, DECIMO OCTAVO JANUARI ANNI DOMINI 1761…”. (Cfr. Discorso di Nicola Chiaromonte nel 1886, in occasione dell’inaugurazione del busto di Placido Imperiale).

Queste famiglie non erano nuove a questi tipi di promesse, anche perché in precedenza avevano già stipulato un altro atto con il notaio Filippo Boncompagni, con il quale il conte Soderini, in nome della Reverenda Camera Apostolica, concedeva in enfiteusi ai capi delle famiglie albanesi, oltre ai terreni, gli attrezzi da lavoro e il bestiame. “In nomine della Reverenda Camera Apostolica ha dato e conceduto siccome dà, e concede alli sopraddetti Capi di Famiglia per sé e per i suoi, numero 42 buoi aratori, 32 vacche da razza, 20 aratri, 74 accette, 70 ronche, 70 zapponi e 128 zappe come si è detto sopra… così ancora tre bestie somarine con loro basto e una cavalla…”. (Archivio Camerale Stato di Castro – A.C.S.C. – Serie I – Atti di Affitto – prot. 7, c. 28).

Le condizioni offerte da Placido Imperiale erano buone, ma la presenza della malaria fu giudicata tanto pericolosa per la salute, da indurre parecchie famiglie, tranne quelle di Primo Cola, Simone Gioni e di Michele Zadrima, a tornare a Pianiano. Quando, però, ciò avvenne, il 23 marzo 1761, gli Scutarini si trovarono in serie difficoltà, perché l’affittuario generale dell’ex Stato di Castro aveva subaffittato le loro tenute.

Le famiglie albanesi presenti a Pianiano dal 1756, stabilitesi a Poggio Imperiale e poi ritornate in questo luogo sono (i cognomi in parentesi indicano le variazioni riscontrate nei vari documenti che riguardano gli albanesi): Cola, Micheli, Coliti, (Collizzi, Colizzi), Le scagni, Lugolitzi (Logorozzi, Lo grezzi, Logorizzi), Natali, Mida, Covacci, Pali, Gioni, Halla (Ala), Gioca, di Marco, Cabasci, Brenca, Ghega (Ellega), Crucci, Zanga, Ghini (Gini), Dilani, Zadrima (Xadrima), Calmet, Stermini, Calemesi (Calamesi, Calmesi), Codelli, Remani. Nel documento dell’Archivio Camerale di Castro, conservato presso l’Archivio di Stato di Viterbo, si trovano interessanti notizie sulla immigrazione di un gruppo di famiglie albanesi. Infatti nell’aprile del 1756 alcune famiglie di Scutari, per sfuggire alle persecuzioni religiose, sbarcarono ad Ancona, cercando rifugio nello Stato Pontificio. Il papa Benedetto XIV, dopo averli fatto provvedere con il denaro dell’Erario Apostolico di tutto il necessario, li fece ospitare a Canino, dando ordine al Tesoriere Generale della Reverenda Camera Apostolica (R.C.A.) di disporre per il loro vitto e di assegnare ai capi famiglia alcuni terreni esistenti nel territorio di Pianiano… A causa dell’insalubrità dell’aria e delle difficoltà di coltivazione dei terreni, in pochi anni il territorio si era spopolato e le case stavano andando in rovina. (Cfr. ITALO SGARRO, Pianiano, un insediamento albanese nello Stato Pontificio, Viterbo, 2004).

            Non mancò però l’afflusso di tanti altri volenterosi, attratti soprattutto dai benefici concessi loro dal Principe, il quale si compiaceva del loro arrivo. Per prima cosa fece costruire nuovi alloggi ed agevolò i più trasandati, perché potessero essere alla pari degli altri.

Scorcio di Piazza e Via Chiaromonte

La cattiva sorte era ancora alle porte e colpì il nuovo villaggio e l’intera Capitanata. Nonostante tanta sventura, gli abitanti di questo villaggio non si scoraggiarono, a differenza di altri che popolavano i nuovi siti. In questi nuovi siti si è verificato un grosso fallimento della politica agricola borbonica e cioè l’infelice esito dei tentativi d’insediamento urbano in Capitanata: a Trinitapoli, alle Saline di Barletta (attualmente Margherita di Savoia), a San Ferdinando di Puglia.

Grazie alla fermezza e alla volontà dei coloni del nuovo villaggio, sempre aiutati e sostenuti da Placido Imperiale, s’incominciò la coltivazione dei cereali ed a piantare i primi vigneti. Tutto questo consentì molta manodopera, tanto che dai vicini paesi giunsero nuovi coloni. Il villaggio accrebbe di popolazione e con il lavoro cominciò anche il benessere.

Il Targioni, (L. TARGIONI, Saggi fisici, politici ed economici, Napoli 1786, p. 154) riportando una notizia sul Principe di S. Angelo dei Lombardi, così scrive: “…ha compiuto grandi lavori di bonifica a Lesina ed installato una colonia di Albanesi di Scutari alla quale è stato dato il nome di Poggio Imperiale. Si noti che la medesima famiglia (i genovesi Imperiali) ha ottenuto brillanti risultati agricoli nell’estremo opposto della Puglia, nel suo Principato di Francavilla”. E nello stesso TARGIONI, o.c., a p. 159 leggiamo: “…e benché non abbia, se non un lustro solo, pur nondimeno contansi da seicento abitanti, tutte fornite di comode abitazioni, fattegli dallo stesso Principe, con decorosa Chiesa parrocchiale e decente Palazzo Baronale…”.

            Tutto questo avvenne su un’estensione di 4100 versure, più 125 per l’impianto di cinque osterie, dove erano state costituite ed assegnate in censuazione a 420 famiglie le cinque colonie di Orta, Ordona, Stornara, Stornarella e Carapelle. Qui si preferì famiglie prive di figli per evitare troppo rapida la divisione dell’aliquota. Ma la mancanza assoluta d’acqua e di legna aveva ben presto condannato alla rovina l’audace tentativo delle colonie, che tra il 1793 ed il 1795  apparvero in piena dissoluzione. Soltanto all’inizio del periodo murattiano (quando Gioacchino Murat era Re di Napoli) incominciarono ad avere gli elementi per una lenta ripresa.

In Capitanata i lavoratori tessili erano 733, pari al 2,15% dell’intera categoria, e costituivano lo 0,27% dei 265.624 abitanti della provincia e lo 0,55% dei 133.160 che vi esercitavano una professione, un’arte o un mestiere.

Nel mezzogiorno d’Italia, i galantuomini (i possidenti)) erano tenacemente attaccati ai propri interessi. Quelle dottrine, che si proponevano di affrontare e risolvere il problema sociale, non attecchivano facilmente.

Pochissimi furono quelli che si accorsero dell’esoso fiscalismo che dissanguava le popolazioni meridionali.

Tutte le comunità del regno, scrive NICOLA FORTUNATO (Riflessioni intorno al commercio antico e moderno del Regno di Napoli, Napoli 1740), devono pagare alla Regia Corte i loro Tributi, che chiamansi fiscali e pesi fiscalari”

            “I bisogni dello Stato avevano fatto crescere queste imposizioni fino al n. di 14, che insieme unite formavano la somma di annui ducati 4,85 e 2/3 da pagarsi per ogni fuoco dell’Università (ogni fuoco equivale ad una famiglia tassabile). Colla Pragmatica 4 de vectigalibus, tutte queste imposizioni furono ridotte a ducati 4,20 per ciascun fuoco. Sopraggiunsero altri bisogni dello Stato, ovvero si tolsero altri dazi gravosi, come ultimamente il diritto proibitivo del Tabacco, e furono imposte alle Università altre imposizioni riguardanti il numero dei suoi fuochi numerati, che uniti importavano ducati 1,14 e 2/3. Le prime chiamansi imposizioni ordinarie, le seconde imposizioni straordinarie, quali unite formano ducati 5,34 e 2/3…”.

palazzo-chia

Nonostante tutto questo, il nuovo villaggio, la “Terra Nova” del Principe, progrediva a vista e suscitava l’invidia dei paesi vicini.

Alfonso Chiaromonte