Presentazione del libro di Lorenzo Bove

 

 

 

 

Frammenti di antiche tradizioni e storia popolare: “Ka quille m’è ditte mammà”.

Commedia dialettale terranovese sceneggiata in 3 atti.

Relazione del libro di Lorenzo Bove, il giorno 8 agosto, alle ore 19,30, Sala polivalente Via Vittorio Veneto, 50.

Mi è stato chiesto di illustrare questo concetto:

  1. D. “Gli usi e i costumi di un popolo non finiscano con l’essere poco a poco coperti dalla polvere dell’oblio, fino a svanire inesorabilmente dalla mappa delle umane conoscenze”.

R. Caro Lorenzo, innanzitutto grazie per avermi invitato.

Questa volta mi hai sorpreso perché sei riuscito ad aprire con un tocco di magia un cofanetto, dove erano ben custodite le ceneri della nostra civiltà contadina e le hai materializzate.

Hai dato loro un’anima, facendole rivivere nel tuo nuovo libro, per ricordare la semplicità, la genuinità e la bellezza della vita del passato.

“Le memorie sono destinate a perire se non si fermano su carta. I vecchi, che ce l’hanno tramandate, vanno scomparendo e i giovani non sanno”.

Scomparendo le tradizioni popolari, scompaiono quelle peculiari caratteristiche, divenute a volte abitudini, che fanno distinguere i popoli e i paesi gli uni dagli altri.

Con il nome di “Tradizioni popolari”, infatti, si definisce quel complesso di usi, costumi, danze, musiche, fiabe, canti, leggende, proverbi… che si tramandano oralmente di generazione in generazione.

Nell’uso internazionale, la disciplina che studia tutti questi fenomeni è indicata con il nome “Folklore”, nome anglosassone, indicato per la prima volta nel 1846 dall’archeologo William Thomas, come denominazione di quel gruppo di fenomeni, indicati allora con i nomi di “antichità popolari” o “letteratura popolare”.

Oggi, ovunque sentiamo parlare di tradizioni. E noi, che facciamo parte di un mondo agricolo, siamo portati a rivivere certe tradizioni, che consideriamo parte essenziale di quel patrimonio ricevuto dai nostri avi di cui dobbiamo farne tesoro di vita, trasmettendone i contenuti ai posteri.

Lorenzo, nel suo libro, ha fatto bene a raccogliere una parte, direi la più saliente di momenti realmente vissuti sia nel nostro territorio sia in quasi tutto il meridione.

Per i popoli culturalmente più evoluti, le Tradizioni comprendono anche brani di letteratura, poesie, opere teatrali, specialmente di quelle in vernacolo, (come ha fatto Lorenzo nel libro).

Esse possono essere definite “fonti di insegnamento e guida”, rivelatrici delle dimensioni vere della saggezza e del frutto di esperienza provenienti da un passato veramente vissuto.

In un mio libro “Le tradizioni popolari tra sacro e profano in Capitanata”, edito dalle edizioni del Poggio nel maggio 2011 e con una ristampa nel settembre 2013, ho illustrato ampiamente questi concetti.

Oggi, purtroppo, le tradizioni popolari sono in crisi e a questa crisi hanno concorso diversi fattori, quali le rapide trasformazioni di una società costantemente in evoluzione, dovute anche ad influssi di altre culture e civiltà.

L’anziano, anzi il “Vecchio”, come si dice oggi, che era il depositario di saggezza e di ponderatezza, aveva un ruolo di primo piano nella famiglia patriarcale. Decadde da questo suo ruolo e fu emarginato, quando si ritenne che non avesse più nulla da dire in una società tecnologicamente e socialmente trasformata.

Troppo facile lanciare proposte per rimediare a quanto è scomparso o sta scomparendo, richiamando alle rispettive responsabilità la società, la famiglia, la scuola.

Il recupero di alcuni valori non si realizza con le belle parole. E’ un processo lento che deve partire da un risveglio spirituale, da una verifica introspettiva delle coscienze, da una ricerca di nuovi rapporti umani, basati sull’amore e sull’umiltà.

Nel libro Lorenzo parla di storie di amori, amori contrastati di giovani innamorati, di credenze, di riti particolari e pregiudizi del tempo, con i quali le rispettive famiglie si sono confrontate. Allora leggiamo parole come “A mmasciate”, a trasciute, a dote, i stizzipanne, u parendàte, u spusalizeje e di conseguenza, non realizzandosi alcuni di questi avvenimenti, si facevano strada riti come u ‘mmalòcchje, a fatture e tutti gli altri malanni che colpivano grandi e piccini.

Prima però di analizzare qualche aspetto di vita dell’altro ieri, voglio cimentarmi anch’io, in breve, con le varie fasi della vita familiare e dei vari progetti di matrimonio che Lorenzo presenta nel libro.

Una componente principale, com’è naturale, è la ragazza, che, terminata l’adolescenza, aspetta con trepidazione di essere osservata da un giovane che la desideri come “zita” per poi chiedere la mano ai genitori.

Ogni donna, infatti, prima sogna e poi pensa di trovare un marito. L’esigenza di trovare un marito qualche volta poteva costituire anche necessità di trovare chi, nel futuro, le avrebbe evitato di condurre una vita misera. C’era nel passato una paura terribile di rimanere zitella.

Per trovare marito, a volte, la fanciulla si guardava intorno per incontrare prima con lo sguardo chi l’avrebbe impalmata e non mancava di interrogare il destino, attraverso particolari pratiche, quale sarebbe stato il suo futuro …e qui è il caso di fare qualche cenno.

La domenica delle Palme, la ragazza, ritornando dalla Chiesa dove si era recata a farsi benedire la Palma, gettava sul fuoco un ramoscello, pronunciava alcune frasi e chiedeva alle Palme se il prossimo anno sarebbe stata sposata oppure no. Se il ramoscello, bruciando, scoppiettava, significava che doveva essere impalmata; se invece non scoppiettava, non ci sarebbe stata alcuna speranza di matrimonio. L’esperimento si ripeteva il giorno di S. Giovanni, il 24 giugno. In tale giorno la ragazza prendeva un pezzo di piombo, che faceva liquefare e che, rapidamente, buttava in una bacinella d’acqua. L’improvviso passaggio del piombo dallo stato liquido allo stato solido faceva assumere al piombo una particolare forma, dalla quale si traevano auspici. Se il piombo aveva una forma di zappa, allora il marito sarebbe stato contadino, se, invece, assumeva la forma di martello, il marito poteva essere un muratore, un calzolaio o altro artigiano. Elementi determinanti nella interpretazione della forma erano la fantasia e le aspirazioni della giovinetta. Il più delle volte il piombo si presentava amorfo, eppure la giovane ne traeva rosei auspici ed era felice, perché traeva la conclusione che sarebbe giunto il giorno in cui qualcuno si sarebbe interessato a lei.

Con l’inizio della primavera, le fanciulle escogitavano tante cose per conoscere il loro futuro di sposa. In campagna raccoglievano e sfogliavano le margherite, ripetendo fino all’ultimo petalo: “Si, no”, “m’ama, non m’ama”, quasi per chiedere al fiore il responso di qualcosa che si avverasse. Un metodo antico a cui hanno fatto ricorso tutti gli innamorati, associando ad ogni petalo una risposta negativa o una positiva.

L’età in cui, generalmente, la donna contraeva matrimonio era compresa tra i 15 e i 20 anni. Il giovane, prima di essere chiamato alle armi (fare il militare), guardava la ragazza da marito, che aveva conosciuto o durante la mietitura e la trebbiatura o la vendemmia o la raccolta delle olive. Le occasioni di incontro in genere erano collegate ai lavori nei quali si impiegava mano d’opera mista.

Il giovane che aveva posto l’occhio su una ragazza frequentava il rione dove abitava la futura zita, la osservava, si informava di tutto su di lei. Nei giorni di festa la seguiva in Chiesa, a debita distanza, sistemandosi in un posto dove poteva agevolmente guardarla. Acquistavano la fortuna che era rappresentata da un pezzo di carta sul quale era stampato il futuro di entrambi. La “fortuna” era venduta da girovaghi forestieri che percorrevano le strade del paese con una fisarmonica e una gabbia con dentro un pappagallo.

Il giovane spasimante spesso faceva “a maffeje”. (In questo caso mafia non è sinonimo di delinquenza). Cioè “ce ‘ndullettàve”, si metteva una coppola, un fazzoletto di colori vivaci e appariscenti legato al collo, oppure si cospargeva i capelli di olio per renderli lucidi, lisci e ben pettinati. Per questo scopo la brillantina arrivò dopo. Così azzimato si recava nei pressi della casa della zita. Fingeva di trovarsi occasionalmente da quelle parti se incontrava qualche parente della ragazza corteggiata. La ragazza, a sua volta, pur rimanendo in casa, seguiva con la massima discrezione le mosse “du zite”, e “ce lazzejave” cioè era contenta e felice di essere osservata. Per evitare le ire dei genitori, se questi erano dissenzienti, spiava dalla finestra socchiusa.

In tutto il Sud a volte, il ragazzo cui piaceva una fanciulla, non ritenendo di poter avere il consenso dai genitori, ricorreva a vari stratagemmi, che arrivavano fino al rapimento. Quello più comune era che quando la ragazza usciva dalla Chiesa, l’aspettava davanti e le toglieva il fazzoletto di testa, scompigliandole i capelli. In questo modo la ragazza era compromessa. Allora si doveva ricorrere al matrimonio riparatore. E questo era uno dei tanti modi per compromettere una ragazza.

Non era raro che i matrimoni si concludessero prevalentemente o esclusivamente per interesse e c’era sempre l’intermediario: “u zanzàne”, che faceva “A mmasciata”, combinava il matrimonio.

Nella propria casa la coppia, oltre al suo credo religioso, conservava anche pratiche di esorcismo (come il malocchio e la fattura), le superstizioni e la credenza che alcuni oggetti allontanassero il male (il corno, il ferro di cavallo, le forbici). Dietro la porta d’ingresso si appendeva un ferro di cavallo o un corno. Tutti sappiamo che il ferro di cavallo porta fortuna. Sino a qualche decennio fa, anche vicino alle vecchie abitazioni di Poggio Imperiale, si vedeva il ferro di cavallo inchiodato sulla porta di casa o addirittura su una parete ben visibile all’interno dell’abitazione, per proteggere la casa da eventuali malefici. Ai bambini si facevano portare sulla camicina medagliette di immagini sacre insieme con cornetti ed altri oggetti che dovevano allontanare il malocchio o qualsiasi altro genere di maleficio: l’abbetìne.

Il malocchio, nelle superstizioni popolari, è un’influenza funesta di cui sono considerati responsabili determinati individui. Esso tratta la superstizione del potere dello sguardo di produrre effetti sulla persona osservata. Tale effetto può essere nella maggior parte dei casi negativo, come portare malasorte su persone invidiate o detestate. Gli effetti immaginari del malocchio consisterebbero in una serie di presunte disgrazie che, improvvisamente e in breve tempo, accadrebbero alla persona colpita. Il malocchio può essere lasciato addosso a qualcuno anche involontariamente. “T’è pegljàte d’occhje”, si sente dire ancora oggi. Il malocchio può colpire per invidia o anche per un complimento che si rivolge ad una persona, se non è seguito dalla parola “bbenediche”, procurando mal di testa, nausea o peggio un senso di stordimento. Ancora oggi si ricorre a persone anziane del vicinato o del parentado per farsi togliere il malocchio quando si avverte all’improvviso un forte mal di testa o senso di malessere generale.

Oggi solitamente contro il malocchio si usano amuleti portafortuna, che variano a seconda dei contesti culturali e sociali: ad esempio in Italia si usa fare le corna con le dita della mano, o toccare un oggetto di ferro o di legno, o toccarsi i genitali, o portarsi addosso un corno di corallo, e per i devoti portare un santino o indossare una collanina con crocefisso.

È importante anche fare un piccolo accenno sulle cosiddette “fatture” che hanno avuto da sempre un posto rilevante nelle credenze popolari. La “fattura” è una particolare forma di magia nera, che si esplica attraverso riti e cerimoniali allo scopo di nuocere alle persone. Essa agisce con particolari oggetti opportunamente preparati, come foto, ciocca di capelli, miscela di intrugli ed altro. Metodi e riti per liberare i soggetti colpiti si tramandano fin dalla notte dei tempi.

Voglio avviarmi alla conclusione per non abusare troppo della vostra pazienza, anche perché questo argomento non può esaurirsi solo con una semplice relazione, tante sono le cose da dire.

Tante sono le cose che Lorenzo ha scritto nel libro. Mi limiterò solo a puntualizzare qualche altro aspetto che ritengo importante.

Molte credenze popolari erano collegate ad avvenimenti che accadevano nella vita quotidiana, a sensazioni che si percepivano, o all’uso di posizionare alcuni oggetti in determinati posti.

Se si spargeva del vino si gridava “allegria”, se si versava del sale o dell’olio si prediceva una disgrazia. Cattivo segno era pure l’inciampare, uscendo di casa. Anche la civetta era tenuta come portatrice di sventura, infatti, si diceva che sarebbero stati colpiti da malanni i proprietari di quelle case verso le quali erano rivolti gli occhi della civetta.

A precisare il significato di una sensazione interviene anche l’attribuzione di effetti benefici o malefici: come il prurito alla mano destra (negativo), alla sinistra (positivo).

Quando si sentiva il fischio ad un orecchio si diceva: “Fiscek’a dritte, kòr’afflitte, fiscek’a manke, kòre franke”. E potrei continuare, ma devo concludere.

Nel periodo in cui la scienza e la tecnica non avevano ancora conquistato gli attuali progressi, nelle società in cui dominavano la precarietà, la miseria e l’ignoranza, nel mondo in cui l’emicrania, il mal di pancia ed altri mali erano inspiegabili, l’uomo ricorreva alla superstizione e alla magia, o, se credente, ai santi. Nessuna civiltà è sorta dal nulla, ognuna si è evoluta, giovandosi delle esperienze, delle usanze e delle tradizioni tramandate da coloro che ci hanno preceduto.

Pubblicato da Alfonso Chiaromonte

Alfonso Chiaromonte è nato il 25 aprile 1941 a Poggio Imperiale dove attualmente risiede. E' conosciuto come scrittore di cose patrie, autore di apprezzati studi su Poggio Imperiale, di cui ha descritto minutamente la breve ma intensa storia.