Vernacolo Terranovese

Qualche spaccato di vita paesana.

Il dialetto resta un efficace mezzo di comunicazione e si presta ad essere utilizzato anche come strumento per esprimere in modo colorito sentimenti, passioni, emozioni.

U scarpàre

È un pezzo incommensurabile della nostra storia, della nostra cultura che andrebbe perduta. Andrebbe perduto quel meraviglioso insieme di sensazioni e sonorità che solo il dialetto ci sa mettere nell’animo. I suoi versi sono ricchi di amore, di ricordi, di sensazioni piacevoli, legati alla propria terra ed evidenziano le sue radici che affondano in un tempo lontano, ma nello stesso tempo vicino. Rievoca la memoria del passato con l’intendo di avvicinare  le nuove generazioni a queste testimonianze e portarle a conoscenza delle generazioni future.

I vocaboli dialettali riescono ad esprimere compiutamente stati d’animo e sensazioni profonde, che l’italiano non dà, come ad esempio “jettà u sanghe”, per indicare la fatica e la stanchezza che si prova dopo una lunga giornata pesante di lavoro.

Mantenere vivo il dialetto è il modo più immediato ed esplicito per riconoscersi r dichiararsi appartenenti ad una medesima comunità, ad una stessa cultura e ad un’identica storia.

I dialettologi affermano che il dialetto è sempre in continuo fieri. E’ vero che il dialetto, con la diffusione dei mezzi di comunicazione di massa, quali radio, televisione, giornali … ha perso molto della sua peculiarità e si è, in certo qual modo, avvicinato all’italiano.Nonostante tutto, ancora vive ed è una realtà linguistica e culturale di grande importanza. Esso, infatti, è una vera e propria lingua con un suo lessico e sue strutture grammaticali, che non hanno nulla da invidiare alla lingua italiana, la quale inizialmente era anch’essa un dialetto.

Mantenere viva la lingua dialettale

La parlata dialettale di Poggio Imperiale abbraccia varie correnti, perché varie sono state le famiglie che si sono alternate in Poggio Imperiale dalla sua origine ai giorni nostri, provenienti da zone molte diverse tra loro, perciò la parlata dialettale di Poggio Imperiale è considerata una lingua alloglotta.

Le vocali, nel dialetto di Poggio Imperiale, non hanno subito un’alterazione della palatizzazione e una rottura con dittongazione (esempio: chéne “cane”, mére “mare”, chése “casa”; oppure maraite per “marito”, amoiche per amico etc.), ma hanno conservato il suono della |a| ed hanno matenuto il suono originario (esempio: cane, mare, vita, marito).

Per quanto riguarda le vocali (é/ó), il poggioimperialese mostra dei fenomeni comuni a quasi tutti i dialetti centro-meridionali. Non presenta però il dittongamento del tipo napoletano, come ad esempio: suonne per “sonno”, bbuone per “buono”, tièmpe per “tempo”, mmièze per dire “in mezzo”, tu t’adduorme per “Tu t’addormenti”, ecc. Il poggioimperialese, invece, ha mméze “in mezzo”, fóke “fuoco”, sónne “sonno”, tu t’addurme per “tu t’addormenti”, bbóne per “buono”, ma bbòne per “buona e buone”.

Le vocali /é/>/i/ conservano lo stesso suono come ad esempio: acite “aceto”, mise “mesi” (ma al singolare mése “mese”); nire indifferentemente al singolare e al plurale “nero, neri”, al femminile però è diverso: nére per “nera” e “nere”; così pure avviene per parole come frisceke “fresco, freschi” e al femminile singolare e plurale frésceke “fresca” e “fresche”, sicche “secco, secchi” e al femminile singolare e plurale sécche per “secca” e “secche”.  Si ricorda sempre che la /e/ senza accento finale di sillaba e di parola è muta.

Gli aggettivi conservano quasi sempre la e finale al maschile e femminile, singolare e plurale. A volte avvengono delle mutazioni a causa dell’accento oppure alla trasformazione della penultima vocale. Es. 1 –  s.m. addermute = addormentato, s.f. addermute = addormentata, pl. m. e f. addermute = (addormentati, addormentate); s.m. secure = sicuro, s.f. secure = sicura, pl. m. e f. secure = (sicuri, sicure); 2 – pl. e  s.m. bbóne = (buono,  buoni), pl. e s.f. bbòne = (buona, buone); 3 – pl. e s. m. fastediuse = (fastidioso, fastidiosi), pl. e s. f. fastedióse = (fastidiosa, fastidiose)[1].

La parlata dialettale di Poggio Imperiale abbraccia varie correnti, perché varie sono state le famiglie che si sono alternate in Poggio Imperiale dalla sua origine ai giorni nostri, provenienti da zone molte diverse tra loro.

Secondo tali elementi, la parlata dialettale di Poggio Imperiale si può chiamare lingua alloglotta.

La colonia albanese poco ha lasciato delle sue tradizioni e del suo folklore, per la breve permanenza che ha avuto nel nostro paese. E’ rimasto solo qualche piccolo ricordo, nelle parole come kakaglje “balbuziente”, chjatràte “infreddolito” e poche altre, citate qualche volta dai nostri nonni.

I pastori d’Abruzzo sono stati quelli che più profondamente hanno influenzato la lingua e le usanze durante il periodo della loro transumanza, perché essi si fermavano per circa tre quarti dell’anno nel territorio di Poggio Imperiale.

Parole che riflettono le modeste usanze di casa: u ddaccialarde “il tagliere”, u tavelére “ la spianatoia”, i sfringele “pezzi che avanzano dallo strutto”, rescekarà (con la s schiacciata alla napoletana sc) “risciacquare”, u fukarile “il focolare” o “il camino”, a fazzatóre “dove s’impasta il pane a mano”. La terminologia delle attività di campagna: u necchiareke “il prato non coltivato”, l’acchje “la bica di frumento”, i listre “ la resta del frumento”, a Kàma “il glume o i pezzi che si staccano dal frumento.

Una terminologia che sembra creata dai pastori, perché dall’Abruzzo alla Puglia potessero aprire un colloquio con le popolazioni che incontravano lungo le interminabili vie della transumanza.

Inoltre c’è da ricordare a lòte “il fango”, na scekife “uno spicchio”, a pertòse “l’occhiello, u kacciakarne “il forchettone”, i vernice “le scintille”, u zurre “il becco”.

E’ presente pure la pressione che i napoletani dovettero esercitare, specialmente fino a quando Napoli è stata l’effettiva capitale del sud. Il napoletaneggiante puro resta la maggior parlata dialettale del comune, perché è stato il linguaggio colto, così chiamato dal popolo, che distingueva i proprietari terrieri e i professionisti da tutto il resto della popolazione.

Si può confrontare una terminologia più o meno tecnica: il teniere ricorrente nelle Prammatiche del Regno di Napoli, per indicare “il calcio del fucile”, a mórra, per indicare una gran quantità di uomini e animali, a Kùnnele, per indicare “la culla” etc. Esiste ancora una terminologia comunissima: scekantà “spaventarsi”, skutelà “scuotere”, zumpà “saltare”.

Timide, ma accertate, sono le apparizioni di un napoletaneggiante àmma fa festa (con il rafforzamento della m nella prima persona plurale) contro un appenninico magnàme “mangiamo” (dove non avviene questo rafforzamento della m nelle stesse condizioni).

Il pugliese di tipo foggiano è pure presente con pochi fatti, ma anche questi sostanziali. C’è da notare facime “facciamo”, nzònghe “non sono”, l’è dditte con due d per “l’ha detto” e così via.

Cose che fanno a pugni con fenomeni come la palatizzazione di si (cfr. trascì “entrare”) o anche l’uso della forma iéve pe pèrse era perduto”, che sono fatti tipicamente appenninici e pastorali.

Tutte le lingue sono “in fieri”, in continuo evolversi, e tutte accusano dei colpi, che poco a poco potrebbero sfiancare una parlata e rifarla tutta diversa dalla precedente. Infatti la lingua cambia giorno dopo giorno, si adegua a nuove condizioni, muta con il mutare della società e degli aspetti storici, economici, culturali. È un mezzo sempre vivo e in continuo ampliamento.

  1. Note grammaticali

Le vocali, nel dialetto di Poggio Imperiale, non hanno subito un’alterazione della palatizzazione e una rottura con dittongazione (esempio: chéne “cane”, mére “mare”, chése “casa”; oppure maraite per “marito”, amoiche per amico etc.), ma hanno conservato il suono della |a| ed hanno matenuto il suono originario (esempio: cane, mare, vita, marito).

Per quanto riguarda le vocali (é/ó), il poggioimperialese mostra dei fenomeni comuni a quasi tutti i dialetti centro-meridionali. Non presenta però il dittongamento del tipo napoletano, come ad esempio: suonne per “sonno”, bbuone per “buono”, tièmpe per “tempo”, mmièze per dire “in mezzo”, tu t’adduorme per “Tu t’addormenti”, ecc. Il poggioimperialese, invece, ha mméze “in mezzo”, fóke “fuoco”, sónne “sonno”, tu t’addurme per “tu t’addormenti”, bbóne per “buono”, ma bbòne per “buona e buone”.

Le vocali /é/>/i/ conservano lo stesso suono come ad esempio: acite “aceto”, mise “mesi” (ma al singolare mése “mese”); nire indifferentemente al singolare e al plurale “nero, neri”, al femminile però è diverso: nére per “nera” e “nere”; così pure avviene per parole come frisceke “fresco, freschi” e al femminile singolare e plurale frésceke “fresca” e “fresche”, sicche “secco, secchi” e al femminile singolare e plurale sécche per “secca” e “secche”. Si ricorda sempre che la /e/ senza accento finale di sillaba e di parola è muta.

Gli aggettivi conservano quasi sempre la e finale al maschile e femminile, singolare e plurale. A volte avvengono delle mutazioni a causa dell’accento oppure alla trasformazione della penultima vocale. Es. 1 – s.m. addermute = addormentato, s.f. addermute = addormentata, pl. m. e f. addermute = (addormentati, addormentate); s.m. secure = sicuro, s.f. secure = sicura, pl. m. e f. secure = (sicuri, sicure); 2 – pl. e s.m. bbóne = (buono, buoni), pl. e s.f. bbòne = (buona, buone); 3 – pl. e s. m. fastediuse = (fastidioso, fastidiosi), pl. e s. f. fastedióse = (fastidiosa, fastidiose).

I pronomi personali nel nostro dialetto sono i seguenti: ije (io), tu (tu), jisse e jésse (egli, esso, ella, essa), nuje (noi), vuje (voi), lòre (essi, esse, loro).

/ó/ >/u/, la ó si trasforma nella u come nel seguente esempio: nuje “noi”, vuje “voi”, sciure “fiori” (al singolare però resta immutato, in questo caso si dice scióre per “fiore”). Nepute resta invariato per singolare maschile e femminile al plurale “nipote, nipoti”. Al singolare femminile invece si dice nepôte “nipote.

La trasformazione continua ancora nelle seguenti altre parole: ballekune per dire “balconi”, mentre al singolare ballekône “balcone”. Abbiamo rusce “rosso e rossi” e al femminile singolare e plurale rôsce per “rossa” e “rosse”. E ancora allo stesso modo abbiamo parole come: sule “solo e soli”, sôle per “sola” e “sole”; il sostantivo invece è u sóle “il sole”. Troviamo inoltre surde per “sordo e sordi” e sôrde per “sorda” e “sorde”.

Molte volte, nei termini dialettali di Poggio Imperiale, si evidenziano alcune parole che raccolgono in sé tutta l’espressione di una frase: luscìja che significa “fare il bucato grande”, a liscìja, invece, voleva significare “l’acqua saponata”; refulejà o rufulejà, per indicare che “il vento fa mulinello”; oppure parole che derivano direttamente dalla vita pastorale: a ttìzz’u fóke per indicare “ravviva il fuoco e sistemalo bene”. I giuvenètte ce lazzejàvene, per dire che le ragazze erano contente, felici per avere indossato un abito nuovo in occasione della festa del Santo Patrono.

A volte, invece, si ricorre a delle espressioni per indicare una sola parola. Cè fatte mal’a l’óssere du vracce, indicando un po’ tutto il braccio, non sapendo distinguere l’omero dall’ulna o dal radio, non sapendo nemmeno cosa fossero. Così pure, per indicare i capogiri si dice me vènn’i scurd’annanz’a l’occhje.

Le consonanti assumono anch’esse una trasformazione: abbiamo ad esempio la b che nel nostro dialetto diventa v oppure u, a seconda delle parole. Allora abbiamo: vókke per “bocca”, vatte per “battere” véve per “bere”, vòske per “bosco” etc. Fanno eccezione quelle parole che nel linguaggio dialettale raddoppiano la consonate come: bbànne per indicare “i musicanti”, bballà per “ballare”.

Alcune trasformazioni avvengono anche in parole come scigne per “scimmia”, sacce per “so”, acce per “sedano”, casce per “cacio”. Si assiste anche ad una completa trasformazione delle parole derivanti dal latino che iniziano con BL/CL/FL/GL/PL.

Dal latino blastemiare (bestemmiare), abbiamo la derivazione dialettale jastemà, come pure da clauvum (chiodo), chjôve, florem (fiore), sciôre, sufflare (soffiare), sciuscià, etc…..

Il segno J rappresenta il risultato della palatizzazione della /i/ e si trova con le stesse caratteristiche sia all’inizio della parola, sia nel copo della parola. Ecco alcuni casi: jettà per “gettare”, jôie per oggi, jame per “andiamo”, pajése per “paese”, frije per “friggere”, jurne per giorno, jelà per “gelare” …….

Le consonanti nd si mutano in nn, munne per “mondo”, oppure nv in mm, mmidia per “invidia”. Quest’assimilazione si verifica anche per le consonanti che si trovano in parole diverse: mmôcche per “in bocca”. Altri casi particolari si verificano per i gruppi ng e mn ed allora abbiamo kagnà per “cambiare”, chjagne per “piange”; mentre restano invariate le forme: stènghe per “sto”, vènghe per “vengo”, sônne per “sogno”.

Qualche esempio bisogna darlo per quanto riguarda le consonanti P/T/K/. Esse possono essere scritte e pronunciate in due modi: kummènte e kummènde per “convento”, ncappà e ngappà lontano da chi parla e da chi ascolta per “prendere”, mpuzzenisce e mbuzzenisce per “impuzzolentisce”, ncarrà e ngarrà per “indovinare”, ncecalì e ngecalì per “diventare cieco”, ntruntelejà e ndrundelejà per “sciorinare”, mparà e mbarà per “apprendere etc… È importante porre particolare attenzione alla pronumzia di nce e nge. È una pronunzia difficile che va fatta tra la ce e la ge. Nel Tarnuése non esiste una scrittura adatta che possa interpretare questa pronunzia. Ho preferito, però, nella scrittura adoperare sempre ce. Es. tra “nce vènghe”e “nge vènghe” – Non vengo, ho preferito la forma nce. Solo nella parola principe, ho preferito la forma princepe e non pringepe, mentre ho lasciato la ge in tutte le altre.

Pur rispettando le indicazioni fonetiche esposte, mi preme sottolineare alcuni aspetti importanti del nostro dialetto per quanto riguarda gli articoli.

L’articolo maschile “il” si trasforma in “lu” (pochissimo usato) o in “u”. Il feminile “la” si trasforma in “la” (pochissimo usato) o in “a”.

Gli articoli determinativi sono rappresentati dalle vocali: singolare maschile u = (il, lo), singolare femminile a = (la) e plurale maschile e femminile i = (i, gli, le).

Gli articoli indeterminativi presentano al maschile singolare nu = (un, uno) e al singolare femminile na = (una).

Gli avverbi sono diversi nei vari paesi garganici a seconda dell’influsso che hanno ricevuto durante la loro formazione, allora per gli avverbi di luogo si ha qua (vicno a chi parla), mentre (vicino a chi ascolta, ma lontano da chi parla) ddò, ma nel poggioimperialese llò, (lontano da chi parla e da chi ascolta) ddà, ma nel poggio imperialese llà. Inoltre abbiamo sôpe per “sopra”, abbasce per “sotto”, dinte e dinde, per “dentro”, fôre per “fuori, nnanze per “davanti”, drète per “dietro”.

Gli avverbi di tempo, invece, sono quasi simili nella scrittura e nella pronucia un po’ dapperttutto; nel nostro dialetto si scrivono: jôje per “oggi”, jére per “ieri”, l’autujére “l’altroieri”, per “ora”, finemmó per “finora”, cra, per “domani”, pescrà per “dopodomani”, crammatine, per “domani mattina” etc. La c in queste parole può essere scritta anche con il K per dare ancora di più il suono duro alle parole.

Le preposizioni più comuni sono: accata, che significa presso, come ad esempio me ne vaje accata mamme. In, dentro abbiamo la parola dinte, sempre preceduta da pe, esempio li mobele ka stanne pe dinde a kàse.

Molte volte gli aggettivi possessivi sono posposti al nome, ad esempio fratete, frateme per dire “tuo fratello, mio fratello”, oppure soreme, sorete per dire “mia sorella, tua sorella”.

I verbi hanno tutti il troncamento in fine di parola per soppressione di sillaba o di vocale. Cito solo alcuni casi di tutte e tre le coniugazioni per avere un’idea: magnà per “mangiare”, vedé per “vedere”, durmì per “dormire”.

La vocale I unita ad un’altra vocale si trasforma in J, ad eccezione di cia, cio, ciu, gia, gio, giu.

Le parole che iniziano con vocale perdono la vocale iniziale davanti a parole che terminano con vocale. Esempio: ce abbótte a trippe, dobbiamo scrivere: ce ´bbótt’a trippe (si sazia, si gonfia la pancia).

La consonante B all’inizio di parola ed a volte anche nel corpo della parola si cambia in v, ad esempio vrascère, braciere, varke, barca…

La consonante C suono duro, diventa K, come kase per dire la casa. A volte, però, di fronte a parole che evidenziano in particolare il suono duro, si lascia lo stesso la consonante C. In alcune parole il lettore incontrerà indifferentemente il K oppure il C.

Che e Chi diventano rispettivamente Ke – Ki.

Chi, invece, seguito da vocale si trasforma in Chj, esempio: chjamà, per chiamare, oppure nce vènghe cchjù, per dire non ci vengo.

La consonante G, quando all’inizio di parola è seguita da vocale, oppure si trova tra due vocali, si trasforma in J, esempio: jàcce, per indicare il ghiaccio, jàtte, per dire gatto, oppure ‘rrejàle, per dire il regalo, a volte scompare del tutto. Esempio: guadagnare si dice uadagnà, agosto si dice auste.

Per scrivere il dialetto tarnuése si usano tranquillamente le lettere dell’alfabeto italiano con l’aggiunta di j e k.

È importante ricordare che il tarnuése si pronunzia sempre mettendo in risalto la consonante finale di ogni parola, aggiungendovi una e muta. Le parole non vengono scritte alla maniera di come sono lette, ma occorre aggiungere la vocale e per evitare di trovarsi di fronte a delle sigle illeggibili e non identificabili come parole di un senso compiuto. Alcuni esempi possono meglio aiutare a capire il significato: Fesine, si legge f- sì- n. Vrascére, si legge vra-scé-r. Cekatélle, si legge C-ka-téll e così via. Fanno eccezione a questa regola tutte le parole tronche e gli infiniti presenti dei verbi di prima e terza coniugazione. Esempio: paisà, uaglió, zumpà, sentí, kampà, mení (venire), ecc.

Il dialetto è sintesi. Nella lingua parlata italiana, intere frasi vengono ridotte a semplici parole, con un’abbondante eliminazione. Nel dialetto si tende all’essenziale, alla sostanza. Solo così viene fuori il colore del dialetto, che diventa più spontaneo, più colorito, più espressivo.

Il dialetto è una vera e propria lingua con un suo lessico e una sua struttura grammaticale, che non ha nulla da invidiare alla lingua italiana.

Le regole della grammatica italiana sono valide anche per il nostro dialetto. È importante usare gli accenti per dare alla parola una giusta cadenza ed un significato diverso. Noi diciamo lègami e legàmi, sùbito e subìto, càpita e capìta e così via. La stessa cosa vale per l’accento nel nostro dialetto.

Presentazione del prof. Giuseppe De Matteis

In tempi come i nostri, caratterizzati da un’autentica invasione dei mezzi di comunicazione di massa, un lavoro così puntiglioso come questo Dizionario dialettale di Poggio Imperiale è davvero una rilevante opera nel panorama della cultura e della civiltà del mondo contadino meridionale e dauno in particolare, perché l’Autore si pone come obiettivo centrale del suo lavoro quello di costituire una sorta di punto di riferimento in tema di corretta ortografia del dialetto U tarnuése. Questa operazione, va subito osservato, costituisce oggi, con la scolarizzazione avanzata, un titolo di merito, poiché il dialetto, in genere, non viene più visto come lingua meno “nobile” rispetto al nobile e gentile idioma italiano.

La “novità” sostanziale di qualsiasi dizionario fresco di stampa è racchiuso proprio nel dare al dialetto un vero alfabeto fonetico, basato sulla corrispondenza biunivoca tra suono e simbolo grafico; è una regola importante che i linguisti e gli studiosi del dialetto tengono in gran conto.

L’autore ha tenuto fede anche al fatto di voler agevolare chiunque si accinge a leggere il dizionario, per saperne di più e meglio sulla fonetica, ossia sull’esatta pronunzia degli accenti, della chiusura o apertura delle vocali. L’utilità di questo Dizionario è proprio nella diffusione della conoscenza della lingua dialettale di Poggio Imperiale. Col tempo alcune espressioni, si sa, alcune sonorità sono destinate a perdersi per il progredire anche dei mezzi di comunicazione. Per fortuna già da qualche tempo è cominciato un interessante processo di riavvicinamento al dialetto, grazie a studiosi ed appassionati, segno palese che il gergo dialettale non è più visto solo come manifestazione folcloristica, ma sempre più spesso nel suo pregnante valore di lingua ufficiale o nazionale. È indubbio, infatti, che spesso la lingua dialettale si rivela lo strumento più appropriato per raccontare la storia e le culture locali.

In tempi come i nostri, in cui l’anglicizzazione e la burocratizzazione hanno molto contaminato la lingua italiana parlata e scritta, con la triste eredità di un notevole impoverimento espressivo, il riavvicinamento al dialetto parlato e scritto, così come ci è stato intelligentemente illustrato in quest’opera dal Chiaromonte, può sicuramente rivelarsi utile per il recupero e la conservazione nei secoli futuri della creatività, della vitalità e dell’autonomia espressiva. (Giuseppe de Matteis)



[1] ALFONSO CHIAROMONTE, Dizionario del Dialetto di Poggio Imperiale “U Tarnuése”, II ed., Poggio Imperiale 2013, p. pp. 14 e 15.

Versi in vernacolo

U vasenekòle

Stammatine songhe sciute ‘nghiazze,

kóme jèsce sèmbe p’a spése.

Kàtte mèle, ceràs’e ‘llebbèrgene.

Dind’a na spòrt’e quand’a vasètte

E ké ‘ddóre ka ce sendéve.

‘kkàtte subbete nu bèlle mazzètte,

j’è u vasenekòle,

ka ke ddòj’o tré ffrónne,

misse dind’au rraù,

ce rrégne de ddór’a kasa mije.

Dòppe lu spij’e lu vasc’e

Pigli’a chiandàrèlle chiàne chiàn’e

a métte nda nu bbukkére d’acqua frésceke.

Ke bèll’a presènze sop’a fenèstre!…

Kricche kricche e virde virde,

rrégne de ‘ddóre tutt’u palazze.

Se tutt’a ggènd’addurasse

Kóme stu vasenekòle,

tutt’u munne putésse

jèsse nu giardìne…

In quasi tutto il Meridione il basilico è chiamato a Vasinicola (u Vasenekòle): Campania, Basilicata, Puglia, Calabria, Sicilia.

Un’antica e falsa leggenda del Decamerone racconta che a Vasinicola è chiamata cosìper colpa di una donna, che mise nel vaso la testa del suo amato Nicola, ucciso e nel vaso nacque il Basilico.

(Stamattina sono andato in piazza/ come faccio sempre per la spesa./ Compro mele, ciliegie ed albicocche/. In una cassetta c’erano tanti vasetti/ che emanavano un gradevole odore/. Compro subito un mazzetto/ è il basilico/. Con due o tre foglie messe nel sugo/ si riempie di profumo tutta la casa./ Dopo lo guardo e lo bacio/ prendo la piantina delicatamente/ e la metto in un bicchiere d’acqua fresca/. Che bella presenza sulla finestra!/Sempre ritto e verde, /riempie di profumo tutto il palazzo/. Se tutte le persone profumassero/ come questo basilico/, tutto il mondo sarebbe un giardino/).

I Kardarèlle

N’ chjòve, fa kaved’angóre.

L’arej’a pòk’a pòke bij’a ‘rrefrescekà.

Kaden’i foglj’e pòke stizzeke.

Kualk’e jórne chjòve ke lamb’e ndrune;

Stime passènn’a navet’a staggiòne,

e quante chiòv’a tèrre ce ‘ddecréje.

Uagliù, scetateve, amma ji pe kardarèlle?

Mó jè u témb’e vid’a gènde gerà

A tutte l’óre pa kambagne

Ke taccatin’e cestarèlle.

Vann’annanz’e dritte pi kambe

E rirene l’ócchje quante véden’i kardarèlle.

I tagliene ku kurtellucce

E chjàne chjàne ‘rrégnen’i panarélle.

Ke fèsta ròss’amma fa stasére!

A vrasc’e prónd’ e u treppéde pure.

Ke na squiccia d’oglie, agli’e petresíne,

ce ‘rróstene ndu fukaríle come vò a nature,

e po’ ta ‘ddekrije fine fine Ke nu bukkère de vine.

I Cardoncelli.  Non piove, fa ancora caldo. L’aria a poco a poco si rinfresca.Cadono le foglie e qualche goccia d’acqua. Qualche giorno piove con lampi e tuoni. È arrivata un’altra stagione, e quando piove la terra è felice. Ragazzi, sveglia, andiamo a raccogliere I cardoncelli (funghi)? Ora è tempo e le persone girano per i campi con fazzolettoni e cestini. Camminano in lungo e in largo e gli occhi sorridono quando vedono spuntare questi funghi. Li tagliano delicatamente con un coltello e riempiono un cestino. Che festa questa sera, arrostiti sulla brace e conditi con un filo d’olio, aglio e prezzemolo e poi li mangi con tanta gioia, gustando un buon bicchiere di vino.

U jórne di mórte

Quande ce pènze, véde na kòse ka chjù nge tròve,

Tanda uaglijùle d’a matína prèste

Gerà pi strade de Tarranòve

Ka kavezètte ‘ngólle, kóm’è na céste.

‘Llukkavene tutte nzègne: ceciótte ceciótte,

kóme se fusse nu cande: a l’aneme di mórte,

e po’ chjàne chjàne: ceciuttélle ceciuttélle,

p’i crijàture: a l’aneme di murtecélle.

Quiste jév’u jórne di mórte ka me ‘rrkòrde.

A nòtt’a nnanze pu penzére nge ‘ddurméve

E a kavezètt’a ppés’a u fukaríle ce mettéve.

A matín’apprésse stévene dinde murijànate,

fecrasékke, mènnel’e ketugne.

Doppe mezejurne tutt’a u kambesande

Pe ji a peccià i lambín’e

Métt’i sciur’a tómbe de ki l’è mórte.

Il giorno dei morti – Quando ci penso, vedo una cosa che non c’è più: tanti ragazzi dalla prima ora del mattino girare per le strade di Tarranòve (Poggio Imperiale) con una calza sulle spalle, come un cesto. Gridavano insieme: “lacrime, lacrime, come se fosse un canto, per l’anima dei morti”, e poi quasi sottovoce: “lacrimucce, lacrimucce, per i più piccoli, per l’anima dei morticini”. Questo era il giorno dei morti che mi ricordo! La notte antecedente non si dormiva per il pensiero di controllare le calze appese al camino. Il giorno dopo erano piene di melagrane, fichi secchi, mandorle e melacotogne. Al pomeriggio, grandi e piccoli, tutti al cimitero per accendere i lumini e depositare fiori sulla tomba dei propri cari.

A ‘rrekóte di vulíve

Mó Jè u témbe da ‘rrekóte,

mascul’e fammene già so prónde.

A matín’i passe subbet’a papàgne

Pekké jè fèsta ròssa p’a kambàgne.

L’arvele du vulive lucekejéie

Quanne jèsce u sól’e vendeléje.

I fòglje ce mòvene kóme tir’u vénde

A u sóle parene d’argénde.

Quande site bèll’arvele de vulive !

A Pasque ce purtat’i palme da pace

E mó ce díte l’óglje fíne

Pe peccià i lambíne,

pe métte sóp’u pàn’e pemmedòre

ka quann’u magne te ‘ddedrij’u kòre.

Pe ‘ndèrre ce métt’a rakene

E i vulive chjàne chjàne sópe kadene.

Ki bbòtte ka daje ki bakkètte,

rrign’a raken’e la sduvake ndi kascètte.

A mézejurne l’arve ‘rrevènde na kase,

turne turne ce ssèttene vucin’u fóke.

Quand’è sapríte pane, cepóll’e kasce.

Maj’u magnà jè stat’a ccusí bbóne.

A u trappíde te sinde nu signóre

Ke quill’oglje d’ore k’è nu tèsòre.

La raccolta delle olive – Ora è il tempo della raccolta, uomini e donne sono già pronti. La mattina passa subito la sonnolenza, perché è festa grande per la campagna. L’albero di ulivo luccica quando esce il sole e soffia il vento. Le foglie si muovono al soffio del vento e al sole sembrano d’argento.

Come siete belli alberi di ulivi! A Pasqua ci portate le palme della pace, ora ci date l’olio fino per accendere i lumini, per metterlo sul pane e pomodoro che quando si mangia riempie il cuore. Si stende un telone per terra e piano piano sopra vi cadono le olive con i colpi dati con le bacchette. Si riempie il telone e si vuota nelle cassette. A  mezzogiorno l’albero diventa una casa, e tutto intorno si siedono vicino al fuoco. Quanto è gustoso pane, cipolla e formaggio. Mai il pranzo è stato così saporito. Al frantoio ti senti un signore con quell’olio d’oro che è un tesoro.

I fóke da Kungètte

A u pajée mije, Tarranòve,

A vegileje da Kungètte, ne jè kòsa nòve,

da sèmbe ce ppicen’i fók’e

già da doppemezejurn’a pòk’a pòke

ce ‘rrekògliene uagliul’e grósse

ai pendune di strade, pe ffa a vambàta chjù ròsse.

Quante bij’a ffa scurd’e dòpp’a Mésse,

jèsce a prucessione ke tanda gènd’apprésse.

Frask’e céppe fann’i mendune

Ka ce piccene sul’a i pendune

A ndó pass’a Madonne mprucessión’e

Tutte quande prèjene ke devozióne.

Quande ce bij’a ffa a vrasce

Ce ‘rrégn’u vrascére da kàse,

Kusí ce dice ndu pajése,

Pe kaccià l’anne ke tutt’u male ka jè purtate.

I fuochi dell’Immacolata – Al mio paese, Poggio Imperiale, alla vigilia dell’Immacolata, non è una novità, da sempre si accendono i fuochi e già dal pomeriggio a poco a poco si raccolgono grandi e piccoli agli angoli delle strade per accendere un fuoco più grande. Quando incomincia ad imbrunire e dopo la S. Messa, esce la processione seguita da tante persone. Frasche e ceppi formano montagne e si accendono solo nei rioni dove passa la Madonna in processione. Tutti pregano con devozione. Quando incomincia a formarsi la brace, la gente del quartiere riempie il proprio braciere, come vuole la tradizione, per scacciare il male che l’anno ha portato.

U prèsèpeje

U saje k’arrìve Natal’e nasce u Bambenélle?

Ndì kase vucìn’u prèsèpeje sònne ‘nndàffaràte.

A grótte ki pastór’u bu’e l’asinèlle,

e mitte l’angel’appise ku férrefelàte.

Te rekurd’u zambugnàre ki ciaralèlle,

a lavandàre ka spann’i ‘rròbb’assaje

e l’angele ka scritte:” Tu scendi dalle stelle”,

quase vulésse dic’e tu u prèsèpeje, pekké nu faje?

I mamme frijene kavuzune, nèvel’e skarpèlle,

I uagliule jòken’a tómbel’e paparèlle.

A i vunece sòn’a kambàne pa mésse de mézanòtte,

i giuvenètte ce dànn’appundamende pe sta nda chieje fin’a nòtte.

Jèscene kammenènne mure mure,

vune vucin’a l’avete sott’abbracce,

andó a strade ‘rrevend’a cróce, pe paúre

ka pass’u pumbenàr’e ce fanne de jàcce.

Sònn’arruvate già ndà Chiése

Ke l’occhje méz’appapagnate.

Sònen’a fèst’i kambàne

E vide nasce Gesù Bambíne

Ndà nu pann’abburretàte.

Mó cènna skurdà tutt’i male,

e pezàm’a dì… Buon Natale.

Il presepio – Lo sai che arriva natale e nasce il Bambinello? In ogni casa sono impegnati vicino al presepio. La grotta con i pastori, il bue e l’asinello, l’angelo appeso con un filo di ferro. Ti ricordi dello zampognaro con le ciaramelle, la lavandaia che stendeva tanti panni e l’angelo con la scritta: “Tu scendi dalle stelle”, Quasi volesse rimproverarti, perché non fai il presepio? Le mamme friggono i dolci natalizi: i panzerottini ripieni, le nevole, i panzerotti lunghi fritti, i più giovani giocano alla tombola e al gioco dell’oca. Alle undici di sera suona la campana per la messa di mezzanotte, le signorinelle si danno appuntamento per stare in chiesa fino a tarda notte. Escono camminando guardinghe rasentando i muri, specialmente dove la strada si fa a croce, e diventano di ghiaccio per paura del lupo mannaro. Sono arrivate in Chiesa già quasi addormentate. Le campane suonano a festa quando nasce Gesù Bambino, avvolto in un panno. Ora dobbiamo dimenticare tutto il male passato e pensare solo a dire… Buon Natale.

Kapedanne

Joje jè l’uteme de l’ann’e

Menu male ka jè fernute.

Quanda kòse c’ià purtate quist’anne

De chijande, de mòrt’e de paur’ogne menute.

Uvì, uvì, jè ‘rruvate Kapedann’e

Quille ka faje joj’u faje pe tutte l’anne.

U dujemileddiciassètte ce n’è sciúte sekur’e

Putìme sta nu pòke sènza paùre.

Mó penzàm’a preparà e a magnà,

e saje pekké? Nge putìme sèmbe sacrefekà.

Ce sta nzègn’a na bèlla kumbagnije

Pe rir’e pazzià ke tand’allègrije.

Jè quase l’ór’e ce piglij’a ‘bbuttiglie de spumand’e

Fòre bijen’a sparà trik trak e bbòttammurre tutte quande.

I bòtte sònne sèmbe chjù fòrt’a méz’a vije

Quann’a gènde jèsce fòr’e i jètt’annareje.

Ndí kas’u giradiske nisciun’u sènde,

mó ce fanne l’augureje, pekké jè u mumènde.

Na magnàte, na ballàte, na kandàt’e ku spumande

Ce fa u brindese decènne : « Bòn’ann’a tutte quande”.

Capodanno – Oggi è l’ultimo dell’anno e meno male che è finito. Quante cose ci ha portato quest’anno: pianti, morte, paura ogni momento. Eccolo, è arrivato Capodanno e quello che fai oggi lo fai tutto l’anno. Il 2017 se n’è andato sicuramente e possiamo stare un po’ senza paura. Ora pensiamo a preparare e a mangiare, e sai perché? Non possiamo sempre fare sacrifici. Si sta insieme con una bella compagnia per ridere, scherzare con tanta allegria. È quasi l’ora e si prende una bottiglia di spumante, mentre fuori tutti cominciano a sparare trik trak e botti.  I botti sono sempre più forti nella via quando la gente va fuori casa e li lancia in aria. Nelle case nessuno sente più il giradischi, perché ora è il momento di scambiarsi gli auguri. Una mangiata, una ballata, una cantata e con lo spumante si fa un brindisi dicendo: “Buon Anno a tutti quanti”.

 

Pubblicato da Alfonso Chiaromonte

Alfonso Chiaromonte è nato il 25 aprile 1941 a Poggio Imperiale dove attualmente risiede. E' conosciuto come scrittore di cose patrie, autore di apprezzati studi su Poggio Imperiale, di cui ha descritto minutamente la breve ma intensa storia.