Le credenze popolari dei primi di novembre

La tradizione popolare vuole che nella notte fra il 1 e il 2 novembre i morti ritornano sulla terra. Si recano prima in Chiesa ad assistere alla celebrazione della S. Messa e dopo la funzione religiosa, ciascuno, stanco del viaggio, ritorna alla propria casa per riposare. Ed è qui, durante questo riposo, secondo il racconto dei nonni, che le anime dei morti, la notte del primo novembre, lasciavano i doni ai bambini.

Foto di Teresa Maria Rauzino da antiche e suggestive tradizioni garganiche della Festa di Ognissanti

Nel nostro paese era vivissima anche la credenza che si potesse effettivamente vedere la processione delle anime che arrivavano. I nonni, infatti, raccontavano che per primi c’erano i morti di morte naturale: davanti a tutti i bambini, le fanciulle, donne e uomini che cantavano, poi i condannati, i morti per disgrazia, i morti improvvisamente… ed infine gli zoppi, gli storpi e così via…

 In tale data si crede che i morti riprendano il corpo, visitino i luoghi in cui sono vissuti e segnino con una croce, invisibile ai vivi, l’abitazione delle persone che dovranno morire durante l’anno.
           E’ opportuno, pertanto, prima di andare a letto, lasciare la casa in ordine per evitare che i morti inciampino e apparecchiare la tavola con pane, acqua e coltello per offrire loro da mangiare e da bere.

Anche ai cavalli, agli asini e ai muli, una volta, si dava, nella stessa notte, una maggiore quantità di paglia e di avena.

Qualche persona anziana raccontava di aver visto la processione dei morti che di notte si snodava lungo le vie del paese per raggiungere una chiesa dove assistere alla celebrazione della Santa Messa.

Ad evidenziare la realtà dell’evento si racconta che la signora Maria Carmela Palmieri in Rendina (1860-1942), la notte dell’Epifania, avendo sentito suonare le campane della chiesa della Madonna delle Grazie, si preparò per andare a messa. Trovò la chiesa gremita di persone che partecipavano al Sacro Rito e queste persone la guardavano meravigliate. Una di loro la invitò ad uscire chiudendole la porta in faccia, mentre un lembo della sua tunacèdda (vestito lungo) rimaneva impigliata. Recuperatolo a fatica, la donna tornò a casa ancora frastornata e andò a dormire. Quando si svegliò, pensò di aver fatto un sogno, ma l’orlo della sua tunacèdda, ancora bagnato, le rivelò la sua reale partecipazione ad un evento straordinario.

Poteva assistere a questa manifestazione notturna, si raccontava, solo chi accendeva uno stoppino preparato con il cerume prelevato dalle orecchie durante l’intero anno.

La stessa credenza è presente anche a Sannicandro Garganico, ma la processione dei morti può essere vista la sera del 1° novembre da coloro che accendono una candela preparata con il cerume prelevato nell’arco dell’anno. Le anime dei morti, secondo quanto dice Isabella Gualano, sfilano in maniera ordinata e gerarchica. Anche a Sannicandro si usa apparecchiare la tavola con ogni ben di Dio per far cibare eventualmente i morti. I bambini appendono dietro la porta la calza per avere dolci e leccornie se sono stati buoni, cenere e carboni se sono stati cattivi.

A Poggio Imperiale i nonni raccontavano che agli inizi del 1900 il sacerdote don Raffaele Ricciardi, verso la mezzanotte, non curandosi dell’ora tarda, stava ancora completando la lettura del suo Breviario.

All’improvviso, sentì per la strada un canto celestiale. Incuriosito, si affacciò appena dietro la finestra e vide una lunghissima processione. Davanti a tutti c’erano bambini vestiti di bianco, poi seguivano uomini e donne vestiti i primi di un colore, altri di un altro colore, altri ancora di colore diverso e così via… (i colori dei vestiti stavano ad indicare il tipo di morte che avevano subito). Chiudeva questa lunghissima processione una schiera di persone zoppe, mutilate oppure aventi altri mali fisici. All’improvviso la processione si fermò e una figura vestita di bianco fece un segno di croce vicino ad una porta. Il prete rimase fermo e attonito… La processione continuò per la sua strada e pian piano si allontanò dalla vista del sacerdote.  Ancora attonito, fece il segno di croce ed andò a letto.

La mattina seguente, appena sveglio, com’era solito fare, si affacciò alla finestra e vide all’angolo della strada, vicino alla porta dove era stata segnata una croce la notte precedente, un gruppo di persone agitate ed altre che piangevano. Incuriosito, chiese notizie ed apprese che in quella casa era morta una signora. Si ritirò in casa e collegò l’accaduto a quello che aveva visto la notte precedente.

(Dal sito ufficiale dei Frati minori Cappuccini di Pietrelcina – Padre Pio –, in un articolo di fr. Francesco Scaramuzzi, si legge: “Novembre inizia con due celebrazioni importanti, due momenti per riflettere e ricordare. Il primo del mese si festeggiano i Santi. Il giorno successivo è dedicato a chi non c’è più: due giornate ricche di significati religiosi, che si fondono con antichi riti e leggende popolari.

A Pietrelcina c’è un’antica credenza, come in tanti paesi del Sud.

Si narra che la notte del 1 novembre, alla mezzanotte esatta, i morti escano dal cimitero del paese e si rechino in processione nella vicina chiesa. A tale processione i vivi non possono partecipare ma devono illuminare il percorso accendendo dei lumini sui davanzali delle finestre o sui balconi. Guai a parlare e a chiamare i morti, si rischia di perdere la parola o di morire addirittura! I morti chiedono solo preghiere che si recitano nel raccoglimento e nel silenzio. E per un giorno essi ritornano a frequentare le loro case abitate dai parenti, i quali, prima di andare a dormire, lasciano la tavola imbandita perché si crede che essi si siederanno a tavola e mangeranno.

(Da alcune leggende e tradizioni di Sardegna).

L’arrivo della processione dei morti è preceduta da alcuni fenomeni naturali come: il soffio del vento che produce un sibilo, ululati dei cani, pioggerella.

La processione dei morti era un fatto risaputo e normale, com’è normale nelle credenze sarde che l’anima, tre mesi prima di morire, senta nel profondo che il tempo di permanenza sulla terra è finito. Nel breve arco di tempo in cui si vaga tra il mondo dell’aldilà e il mondo dei vivi, capita che qualcuno veda l’anima della persona al ballo dei morti e capisca da questo che il tempo è arrivato.

Tzia Marghera (Magherita), come si legge in Contus Antigas – Leggende e Tradizioni di Sardegna -,  raccontava che un giorno sognò di camminare nella discesa che da casa sua andava verso il paese, quando d’un tratto vide salire la processione dei morti; lì notò il figlio di una sua vicina, un ragazzo di vent’anni. Allora lei si avvicinò e chiese :” Che fai alla processione dei morti? Io ti ho visto oggi che portavi una fascina e stavi bene“. Il ragazzo la guardò e rispose “Da tre mesi il mio spirito oramai è alla processione dei morti, l’anima entra in contatto con loro tre mesi prima che il corpo muoia e và e viene tra l’aldilà e la terra, il mio tempo è finito, morirò in breve“.

Si racconta di due leggende: quelle della “Reula” e del “Ballo dei morti”, intrinsecamente collegate per svariati punti. La Reula è una processione composta da 12 anime che tutte le notti, partendo dai pressi delle antiche chiesette di campagna, viene fuori e si protrae dal tramonto all’alba per le vie del paese, portando terrore nel caso in cui qualche malcapitato paesano vi si imbattesse.

Similmente, “il ballo dei morti” si svolge anch’esso nei pressi delle suddette chiese, solitamente il giorno dopo la festa di paese: nel momento in cui i vivi si ritirano nelle loro dimore, allora si dice escano fuori le anime dei defunti, essendo giunto finalmente il loro turno di festeggiare. Qui si danno ad inquietanti balli che possono forzatamente includere qualche sfortunata persona capitata nei pressi della cerimonia.

Secondo entrambe le leggende, l’unica possibilità di salvezza a disposizione dei vivi, che incappano in queste spiacevoli situazioni, consiste nel distrarli ripetendo preghiere, litanie, o frasi dal senso relativamente incerto quali “Ballate, ballate voi, che questa festa è la vostra. Quando verrà la nostra, canteremo e balleremo noi” che causeranno l’ilarità generale del gruppo, consentendo al vivo di scappare via.

 In entrambi i casi si dice che le anime siano costrette a vagare nei paesi e fare “Penitenza” in terra per i peccati commessi in vita, come se si trovassero in un particolare Purgatorio.
            Nel casertano e in alcune zone limitrofe, oggi, negli anziani sopravvive ancora la convinzione del ritorno delle anime dei morti nella notte fra il 1 e il 2 novembre in modo che possano ricongiungersi con i vivi o anche solo tornare in quei luoghi dove hanno vissuto.

Sin dall’antichità si credeva che la notte fra il 1 e il 2 novembre le anime dei trapassati ritornassero nelle abitazioni per raggiungere i propri cari e si manifestassero come presenze silenziose e benevole che vegliavano sui parenti ancora in vita. Come ho già detto, non si trattava semplicemente di una credenza, ma di una vera e propria convinzione, al punto che era usanza imbandire la tavola della cucina e lasciare un bicchiere di vino, uno d’acqua, del pane ed un pezzo di baccalà per rifocillare l’anima del defunto prima della sua partenza per l’Aldilà.

In alcune zone poi si lasciava anche un dolce chiamato “il pane dei morti”. Si può parlare quindi di una vera e propria processione di anime dei defunti, che dal Regno dei Morti giungeva nel Nostro e che al termine della visita nuovamente si univano per farvi ritorno.

U jórne di mórte

Quande ce pènze, véde na kòse ka chjù nge tròve,

Tanda uaglijùle d’a matína prèste

Gerà pi strade de Tarranòve

Ka kavezètte ‘ngólle, kóm’è na céste.

‘Llukkavene tutte nzègne: ceciótte ceciótte,

kóme se fusse nu cande: a l’aneme di mórte,

e po’ chjàne chjàne: ceciuttélle ceciuttélle,

p’i crijàture: a l’aneme di murtecélle.

Quiste jév’u jórne di mórte ka me ‘rrkòrde.

A nòtt’a nnanze pu penzére nge ‘ddurméve

E a kavezètt’a ppés’a u fukaríle ce mettéve.

A matín’apprésse stévene dinde murijànate,

fecrasékke, mènnel’e ketugne.

Doppe mezejurne tutt’a u kambesande

Pe ji a peccià i lambín’e

Métt’i sciur’a tómbe de ki l’è mórte.

Il giorno dei morti – Quando ci penso, vedo una cosa che non c’è più: tanti ragazzi dalla prima ora del mattino girare per le strade di Tarranòve (Poggio Imperiale) con una calza sulle spalle, come un cesto. Gridavano insieme: “lacrime, lacrime, come se fosse un canto, per l’anima dei morti”, e poi quasi sottovoce: “lacrimucce, lacrimucce, per i più piccoli, per l’anima dei morticini”. Questo era il giorno dei morti che mi ricordo! La notte antecedente non si dormiva per il pensiero di controllare le calze appese al camino. Il giorno dopo erano piene di melagrane, fichi secchi, mandorle e melacotogne. Al pomeriggio, grandi e piccoli, tutti al cimitero per accendere i lumini e depositare fiori sulla tomba dei propri cari.

Pubblicato da Alfonso Chiaromonte

Alfonso Chiaromonte è nato il 25 aprile 1941 a Poggio Imperiale dove attualmente risiede. E' conosciuto come scrittore di cose patrie, autore di apprezzati studi su Poggio Imperiale, di cui ha descritto minutamente la breve ma intensa storia.